Elizabeth
Jane Howard viene scoperta in Italia postuma. La Fazi Editore si è assicurata
la pubblicazione dei suoi romanzi tra cui la Saga dei Cazalet, che abbiamo
letto nel suo primo capitolo, Gli anni della leggerezza, dove la Howard ci
racconta l’intreccio tra le vite di una famiglia della borghesia in un paese
alla vigilia della II Guerra Mondiale. Con uno stile raffinato e ironico la
scrittrice ci “raffigura” i rituali della borghesia inglese del secondo
dopoguerra, ancorati ai vecchi privilegi nobiliari dell’epoca vittoriana. Ci
racconta le dinamiche di coppia tra le
varie famiglie che compongono la Dinastia dei Cazalet, importatori ed
esportatori di legnami pregiati. Siamo nell’estate del 1937. Iniziano a
sentirsi i primi venti di una nuova guerra, che si paventa addirittura più
cruenta della precedente. I Cazalet sono riuniti per le vacanze nella casa di
campagna. Il Generale e la Duchessa, come vengono chiamati i capostipiti della
famiglia, William Cazalet e Kitty Barlow, sono l’incarnazione della passata
epoca e della morale vittoriana. Hanno tre figli maschi e una figlia femmina.
Hugh è il primo, tornato dalla Grande Guerra senza una mano e con delle schegge
nella testa, soffre di tremende emicranie ed ha paura di una nuova guerra. É un padre integerrimo ed ha un bellissimo rapporto con sua
figlia Polly ed ama molto sua moglie Sybil. Edward è il più bello dei maschi
Cazalet. É il secondogenito, ma è quello più popolare. É stato anche lui in guerra, ma è ritornato, a differenza
di suo fratello, fortificato, intatto e con qualche onorificenza da mostrare. É spostato con Viola, detta Villy, ma non ne è innamorato,
infatti la tradisce spesso. Lascia a lei tutte le incombenze riguardanti i
figli. Hugh ed Edward lavorano entrambi nell’impresa familiare. Poi c’è Rupert,
il sognatore della famiglia, fa l’insegnante, ma vorrebbe dipingere. É stato sposato con Isobel, morta nel mettere al mondo suo
figlio Neville. Si è risposato con l’attraente, giovanissima e frivola Zoe, ex
attrice e ballerina. Hugh oltre a Neville ha un’altra figlia Clary, la sua
maggiore, molto sensibile e che non ama per niente la sua matrigna. Zoe, tra
l’altro, non ha nessunissima voglia di occuparsi dei due figliastri e lascia
tutto nelle mani della loro tata. E poi c’è Rachel, l’unica donna Cazalet. Ha
rinunciato a tutto pur di seguire in tutto e per tutto i suoi genitori. Ha
rinunciato anche all’amore di Sid, nonostante sia riamata da lei. E poi ci sono
i nipoti: Polly, Simon e William figli di Hugh e Sybil; Louise, Teddy e Lydia
figli di Edward e Villy; Clary e Neville figli di Hugh e della compianta
Isobel, tutti con i loro giochi, i loro sogni, con la minaccia imminente dello
scoppio della Seconda guerra Mondiale. Questo romanzo è proprio leggero come il
suo titolo “Gli anni della leggerezza” e forse l’autrice ha voluto, con la sua
scrittura scorrevole, quasi poetica, farci percepire quella leggerezza che da
il titolo al romanzo. Questo capitolo è
una sorta di “attesa” per ciò che verrà, è solo l’inizio della saga una sorta
di preparazione, ma bello, ugualmente bello. Consigliato. Voto: 8
martedì 18 aprile 2017
martedì 11 aprile 2017
RECENSIONE – Yeruldelgger. Morte nella steppa di Ian Manook
La Mongolia con il suo paesaggio ancestrale
sospesa tra le tradizioni dei nomadi della steppa selvaggia e la modernità
violenta della sua Capitale, fa da sfondo alla storia del commissario Yeruldelgger
in questo primo libro della trilogia di Ian Manook, pseudonimo del giornalista
francese Partick Manoukian. Il luogo è duro e inospitale, i visi delle persone
sono corrosi e cotti da un vento secco che penetra nelle ossa, il paesaggio si
perde in un orizzonte senza fine. In una mattinata così, Yeruldelgger si muove
svogliato verso un paesino a pochi chilometri dalla capitale Ulan Bator. É
apparso dal terreno un pedale di una bicicletta, mentre una famiglia nomade
stava scavando il terreno. Sotto il pedale c’è una mano, piccola. É di
una bimba sepolta da parecchio tempo con il suo triciclo. Un’altra grana da
pelare per Yeruldelgger, oltre all’omicidio di tre cinesi avvenuto quella
stessa notte nella capitale in una fabbrica in periferia; sembrerebbe, per come
sono stati ritrovati i cadaveri, che siano stati sottoposti ad un macabro rito
sessuale. Ma il commissario non sa che il peggio deve ancora arrivare. Sulla
sua strada troverà politici e potenti locali, magnati stranieri alla ricerca di
investimenti e divertimenti illeciti, poliziotti corrotti e delinquenti
neonazisti, per contrastare i quali, non dovrà utilizzare le moderne tecniche
di investigazione, quanto riappropriarsi della saggezza dei monaci guerrieri
discendenti di Gengis Khan. Yeruldelgger avrà il compito di unire la modernità
e la cultura tradizionale se vorrà venire a capo dei delitti, ma anche per se
stesso, messo in pericolo dalle sue indagini. Un thriller a tinte forti in
un’ambientazione insolita, dove pagina dopo pagina l’autore ci tiene desti con
scene ad alta tensione. L’intrigo poliziesco rivela anche la complessità delle
questioni geopolitiche, per i rapporti
della Mongolia con gli interessi economici ingombranti di Russia e Cina, con la
scoperta di terre rare, ricche di minerali necessari ad alimentare l’industria
tecnologica. L’autore descrive con stile essenziale, asciutto i vari
personaggi, tanto che di Yeruldelgger sappiamo solo come sono fatte le sue
mani. É
un romanzo questo tutto da gustare, per scoprire un’ambientazione unica e
coinvolgente, per seguire gli avvenimenti ad alta tensione inframmezzati da
momenti in cui la poeticità dei sentimenti prende il sopravvento, e anche
momenti di velato umorismo. Non lasciatevi sviare dalla collera del
commissario. Quella collera si trasformerà in forza di volontà, un modo di
spogliarsi dei propri incubi e di tornare se stesso. In conclusione ci colpisce
l’inusuale ambientazione, originale e affascinante. Una trama ben scritta,
complessa e ricca di emozioni, narrata con una prosa densa e coinvolgente. E
soprattutto un grande protagonista che non può che conquistare. Voto: 8
lunedì 10 aprile 2017
RECENSIONE – La famiglia Fang di Kevin Wilson
I Fang, strana famiglia è la
loro. Annie e Buster ormai cresciuti stanno vivendo una parte della loro vita
un po’ deludente. Annie attrice molto
promettente, tanto da essere arrivata vicinissima alla vincita di un premio
Oscar come miglior attrice, è reduce dall’interpretazione di un film non
proprio di successo, anzi sta ricevendo solo critiche. La sua relazione con uno
dei maggiori sceneggiatori di Hollywood sta vivendo alti e bassi, soprattutto
per le recenti notizie di gossip che sono apparse su siti e giornali. Una sua
collega ha millantato una relazione lesbica con lei, e una sua foto a seno nudo
ha fatto il giro del web. Per questo la sua addetta stampa l’ha mollata e lei
non fa altro che bere e deprimersi. In più il suo ragazzo si è rifatto sotto,
vuole che parta con lui in uno chalet desolato del Wyoming solo per essere a
sua completa disposizione. Malauguratamente ha anche accettato, e non sa come
tirarsene fuori. Nel frattempo suo fratello Buster è alle prese con l’ennesimo
articolo su futili argomenti. Ormai riesce a scrivere solo quelli. Ex scrittore
di successo, vincitore di un premio letterario con il suo primo romanzo, non
riesce più a scrivere nulla, soprattutto dopo l’insuccesso della sua seconda
fatica. Parte per conoscere un gruppo di ex militari alle prese con
un’invenzione particolare, uno spara-patate, e qui subisce un incidente di
percorso e si ritrova in ospedale con la mandibola rotta, un trauma facciale
esteso, e un debito di diciottomila euro con la sanità. Non gli resta che
tornarsene a casa. Ma non a casa sua, no, visto che non ha più un soldo, a casa
dei suoi genitori i famigerati Fang. Buster chiama Annie e l’avverte di quello che
sta per fare e lei trova la scusa per non partire più con il suo ex e andare in
soccorso di suo fratello. Quindi in due si ritrovano nella casa natale. I
genitori Fang, Caleb e Camille sono due attori folli ed egocentrici. La loro
vita è consacrata alla loro arte. Le loro performance sono programmate a tavolino,
ma somigliano molto ad una serie di scherzi, irresistibili, ma anche un po’
pesanti. I ragazzi Fang, quando erano piccoli, erano costretti a partecipare a
queste performance, ma le hanno sempre odiate in tutto e per tutto, quindi fare
ritorno a casa per loro è come rituffarsi immediatamente nel passato, con la
probabilità che i loro genitori li coinvolgano di nuovo in qualcosa che non
vogliono veramente fare. C’è chi ammira e stima i loro genitori, ma anche chi
li deride. Caleb è quello più convinto della sua arte. É un capofamiglia diabolico,
creativo e cinico, mentre Camille, pur dandogli tutto il suo appoggio, è più
sensibile e protettiva nei confronti dei figli. Insomma, sono dei genitori
terribili. Finché erano in casa i loro nomi erano solo e soltanto A e B, per
rappresentare bene le loro creazioni e di qui la loro fuga una volta cresciuti,
anche se l’influenza dei loro genitori rimane comunque forte. Il fardello che
Caleb e Camille hanno lasciato ai loro figli è molto pesante da portare e
difficile da mollare. Tutto quello da cui credevano di essere fuggiti per
sempre, le performance, le stranezze, la musica punk sparata a tutto volume
durante il processo creativo dei genitori, ma soprattutto il dolore, tornerà a
sommergerli. Un giorno Caleb e Camille scompaiono senza lasciare nessuna
traccia. Sembra siano stati rapiti e uccisi nei pressi di una stazione di
rifornimento in Nord Carolina, la polizia almeno è quello che dice. Ma è vero
che sono stati uccisi o è di nuovo una loro performance artistica dove Annie e Buster
hanno la parte di rintracciarli? Il concetto di arte è un tema ricorrente nelle
pagine di questo romanzo. Più volte i personaggi si interrogano sul fine ultimo
dell’arte stessa, su cosa sia veramente bello. Per Caleb Fang l’arte è caos,
distruttivo e prolungato nel tempo, un vortice di follia. Oltre all’arte il
romanzo ci parla anche di scelte, come quella di anteporre l’arte alla
famiglia, di cui Caleb non avrà pentimento. La famiglia Fang non avrà una
redenzione, non ci sarà un lieto fine o un equilibrio. Non esistono pozioni
magiche, non c’è nessun palcoscenico da cui scendere, perché nel teatro che è
la vita, l’unica soluzione è tagliare le corde che trattengono il sipario,
senza mai voltarsi indietro, almeno per Annie e Buster. Voto: 7
martedì 4 aprile 2017
RECENSIONE – Un gentiluomo a Mosca di Amor Towles
Mosca, 1905. Il conte
Aleksandr Il’ic Rostov, membro della vecchia aristocrazia russa, viene scortato
in Cremlino per un faccia a faccia con il Comitato d’Emergenza del Commissario
del popolo. Verrà condannato dal Tribunale del Popolo, senza nessun appello,
agli arresti domiciliari presso l’Hotel Metropole. Non potrà mai lasciare
l’albergo, perché il solo sorpassarne la porta potrebbe condannarlo alla
fucilazione. Il conte è un uomo fiero, un gentiluomo molto colto e molto arguto
e non è affatto intenzionato a lasciarsi scoraggiare dalla sfortuna. Non è un
uomo vendicativo come l’Edmond Dantes di Dumas, ma è un uomo che sa governare
le circostanze, e decide di affrontare la sua prigionia mantenendo la propria
determinazione. La pena in effetti non è così grave. Il Metropole è il migliore
Hotel di Mosca, anzi tra i più sfarzosi di Russia. In stile art déco, ha al suo
interno rinomati ristoranti, punto di ritrovo delle persone ricche, influenti
ed erudite. Certo il conte è un uomo di mondo, abituato a viaggiare in lungo e
in largo, con una intensa vita sociale, la reclusione, anche se in un albergo
di lusso, sembra essere un gabbia dorata, ma pur sempre una gabbia. E mentre nel
mondo al di fuori dell’albergo imperversa la politica di Stalin, che ha preso
il controllo del paese, e vede assottigliarsi i rapporti con i paesi
occidentali, il conte decide di vedere i lati positivi della prigionia e di
considerarsi l’uomo più fortunato della Russia.
Nonostante, i cambi di direzione dell’albergo che lo fanno diventare
sempre meno di lusso e sempre più un ramo della burocrazia russa, Rostov
reinventa se stesso e questo lo fa sopravvivere. Da uomo abituato a non avere
nessuna occupazione si ritrova a servire a quegli stessi tavoli dove poco prima
mangiava lui, servito e riverito. A distrarlo e a tenerlo su di morale ci pensa
anche una piccola e curiosa inquilina che come lui, vive al Metropol, Nina
Kulikova, figlia di un uomo di governo, che la lascia sempre e costantemente da
sola. I due vivono l’albergo, riescono a farlo espandere, scovando passaggi
nascosti e stanze segrete, forse solo reinventandole. Sarà Nina che si occuperà
della rieducazione del Conte, che lo porterà a comprendere quando sia vasto il
mondo e affascinanti i personaggi che lo popolano, anche solo tra le quattro
pareti di un albergo. Con un linguaggio ricco di umorismo, un cast di
personaggi scintillanti, tra rivoluzionari intransigenti, stelle del cinema, e
intellettuali disillusi, la storia si snoda, tramite la scrittura quasi poetica
di Towles, donandoci un protagonista che ha il pregio di rendersi
indimenticabile. Bellissimi anche i co-protagonisti Sofia, figlia di Nina,
Marina la sarta dell’Hotel, Vasily il portiere, Emile lo chef del ristorante
Boyarsky, Andrey il maitre, senza dimenticare Anna, Osip e Mishka, che
diventeranno tutta la sua famiglia. Il personaggio del conte è ben costruito,
ha una sua personalità, che subirà cambiamenti nell’arco della narrazione.
Subirà un’evoluzione con il ribaltamento della sua posizione sociale. Dalla
camera extra-lusso al sottotetto dell’albergo, dall’essere un nobile, al
divenire un cameriere. Ma quello che sarà la svolta della sua vita ha solo un
nome: Sofia. Un gentiluomo a Mosca è un libro composto da molti elementi tutti
ben legati tra di loro. Dramma, commedia, riflessione politica resi con stile
dalla narrativa dell’autore. Vi consiglio la sua lettura, perché oltre ad
essere un romanzo piacevole, vi rimarranno nel cuore i protagonisti, e vi
farete anche qualche sana risata. Voto: 8+
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