venerdì 31 ottobre 2014

RECENSIONE – Il cacciatore del buio di Donato Carrisi



Secondo episodio della serie del  Tribunale delle Anime e della Penitenzieria, con di nuovo protagonisti, Marcus e Sandra. Il penitenziere e la foto rilevatrice. Come già sappiamo dal precedente episodio, Marcus è un uomo senza passato. Non ha identità, non ha memoria, non prova odio, ma solo rabbia e l’amore … beh quello è un’altra storia. Ha un talento, Marcus, quello di scovare le anomalie e di intravedere i fili che legano la trama di ogni fatto cruento. Marcus scova il male in quelle anomalie. Marcus è un intuitivo. Sandra Vega, lavora sulle scene dei crimini, a differenza di Marcus non ha bisogno di nascondersi, ma delle volte lo fa, dietro la sua macchina fotografica. Perché Sandra è una foto rilevatrice della omicidi. E’ capace di fotografare il nulla, il vuoto e renderlo visibile. E da quei fotogrammi ricavare segni ed indizi invisibili ad occhio nudo. Lei invece è riuscita a riemergere dal buio in cui era caduta nel precedente episodio. Si è trasferita, è tornata alla vita, ha di nuovo un compagno e una vita sociale. E’ così che Marcus la vede, perché in tutto questo tempo non ha potuto fare a meno di seguirla, e di informarsi della sua vita.  I due agiscono ognuno per conto proprio, anche se il fine è il medesimo: ricucire la trama del crimine partendo dalle anomale e dai segni, per trovare un percorso che li porti al colpevole. Ogni morte dovrebbe avere un colpevole e per trovare quel colpevole servono indizi, servono segni. Ma stavolta sembra quasi impossibile ricostruire i fatti. Una giovane coppia viene ritrovata morta in una pineta. Si erano appartati alla ricerca di intimità. Vengono aggrediti mentre si erano appena denudati, esposti di fronte alla morte. La domanda che l’assassino pone con il suo gesto è: “Si tratta di vero amore?” Il mostro potrebbe essere chiunque, ma la sua storia affonda le radici in un passato recente. Questa è la storia di demoni che si fanno il segno della croce al contrario, di una chiesa in cui il crocifisso esposto sull’altare miracoloso, è stato inciso da un artista anonimo, che per ispirazione aveva ucciso. E’ la storia di una favola senza i cattivi, e per questo triste e inutile. Questa è anche la storia del bambino di sale e della bambina di luce. Bambini di una favola cattiva. Dove il cattivo è un uomo con la testa di lupo. Tra esoterismo e thriller psicologico, i due protagonisti si troveranno ad indagare su un personaggio sfuggente, ma soprattutto protetto da strane persone, che non disdegnano di uccidere chiunque si avvicini alla verità. “Diabolus hic est”, il Diavolo è qui. Questo è il romanzo di una follia omicida che risponde a un disegno, terribile eppure seducente. E ogni volta che Marcus e Sandra pensano di aver afferrato un lembo della verità, scoprono uno scenario ancora più inquietante e minaccioso. Questo è il romanzo che leggerete combattendo la stessa lotta di Marcus, scontrandovi con gli stessi enigmi che attanagliano Sandra, vivendo delle stesse speranze e delle stesse paure fino all'ultima riga. Voto: 7,5

giovedì 23 ottobre 2014

RECENSIONE – Luci d’inverno di Nora Roberts

Sulle ali dell’entusiasmo del libro precedente (Il testimone) ho preso in mano questo altro crime-romance della Roberts. E la volete sapere una cosa? Quasi, quasi (anzi togliamo i quasi) la preferisco scrittrice di questo genere che dei romance veri e propri. Nonostante la trama non abbia nulla di così spiccatamente originale, è talmente ben costruita e ben scritta da tenere il lettore incollato alle pagine del libro. E per questo, nemmeno la mole, molto corposa (più di 600 pagine) di questo romanzo, riesce a spaventare. La storia è questa qui. Ignatius “Nate” Burke è un ex poliziotto della omicidi di Baltimora. Accetta un incarico come capo della polizia di Lunacy, piccola cittadina in Alaska, per fuggire dalla crisi causata dal recente divorzio e dal trauma, ben più grave, per la morte del suo partner sul lavoro, per la quale si sente in parte responsabile e non riesce a darsi pace. Dopo mesi di colloqui con psicologi e assunzione di farmaci, decide di allontanarsi da Baltimora e “seppellirsi” a Lunacy, sotto una routine fatta di scontri tra vicini, alci ed orsi che scorazzano nei cortili, liti domestiche, ubriachi di turno, scazzottate tra fratelli e problemi legati ad eventi atmosferici. I primi giorni nella cittadina sono talmente tranquilli che è attanagliato dai sensi di colpa e dalla depressione ed il freddo ed il buio in cui è immersa Lunacy in pieno inverno, non aiutano. In più deve cercare di evitare la focosa Charlene, padrona dell’albergo-ristorante che lo ospita, di non essere travolto dallo spazzaneve guidato dallo scontroso ed inospitale Bing, e di non urtare la sensibilità della sua segretaria Peach. Finché all’improvviso a trarlo d’impaccio e soprattutto a riaccendere in lui una fiammella di speranza, interviene Meg Galloway. Lei è una pilota di aerei da trasporto, bella e sfacciata, spericolata  al punto giusto e molto, molto indipendente. E’ capace di volare nelle zone più impervie dell’Alaska e nelle situazioni climatiche più difficili. Meg è anche la figlia di Charlene e di Pat Galloway, un hippie scomparso nel nulla sedici anni prima. Proprio il ritrovamento del corpo congelato di Galloway, in una grotta sulla montagna Senza Nome, con una piccozza per il ghiaccio conficcata ancora nel petto fa precipitare la situazione nella cittadina, scuotendola nel profondo e spingendo l’assassino, rimasto nascosto per tutto quel tempo, ad uccidere di nuovo. Questa seconda morte, nonostante tutto, viene catalogata dalla polizia di stato, come un suicidio, ma Nate non è convinto e soprattutto vuole esaudire il desiderio di Meg: trovare il vero assassino del padre; quindi inizia un’indagine solitaria contro tutto e tutti. E’ la scintilla che lo fa rinascere e lo rimette in gioco e anche l’attrazione iniziale per Meg subisce un notevole cambiamento diventando qualcosa di più profondo e stabile, nonostante le rimostranze iniziali di lei. Finale romantico  e scontato a parte, questa è la storia di un uomo a cui è data una seconda possibilità, ma sta a lui coglierla al volo e sciogliere il ghiaccio nel suo cuore come nel disgelo della primavera in Alaska, ritrovando la complicità di una donna e quella dell’intera comunità come in una grande famiglia, in un segnale di speranza, segno tangibile, che dopo le tenebre ci può essere sempre la promessa della luce. Bellissimi i paesaggi descritti dalla Roberts in un Alaska fredda e buia, con ghiaccio e neve dappertutto come il cuore di Burke, e la seconda Alaska quella del risveglio primaverile, con i fiumi che straripano e i ghiacci che si rompono, che descrivono oltre che la rinascita della natura anche la rinascita dello stesso Burke. Bellissima Meg, degna compagna. Donna forte, plasmata dall’ambiente ostile in cui è abituata a vivere, è pronta ad imbracciare il fucile per proteggere chi ama, come i suoi cani. Facile all’irritazione ma allo stesso tempo capace di notare la tristezza negli occhi di Nate. Attirata  anche dalla sua propensione al comando,  è l’unico che riesce a dargli degli ordini, si innamorerà di lui perché “è abbastanza folle da poter funzionare”. La Roberts, di nuovo, non mi delude. Voto: 7,5 

mercoledì 22 ottobre 2014

RECENSIONE – LE OSSA NON MENTONO di Kathy Reichs

Diciassettesimo romanzo della antropologa forense Temeperance “Tempe” Brennan. Questa volta la troviamo alle prese con degli orrendi omicidi che non trovano spiegazione. Niente tracce, niente cause di morte, niente di niente. Orribili questi omicidi che fanno molto rumore, perché le vittime sono tutte ragazzine adolescenti. Apparentemente non ci sono indizi ed assassini da ricercare, ma Tempe in coppia con il detective Slidell riescono comunque a trovare qualcosa; una labile traccia di DNA che porta ad un nome angoscioso e a storie terribili di casi passati, quello di Anique Pomerlau. Questo nome riporta nella vita di Brennan il fantasma del “liutentant” della omicidi canadese Andrew Ryan. Già … Ryan. La polizia del distretto di Charlotte-Maklenburg e i federali americani, vorrebbero che Ryan collaborasse alle indagini. Lui che era stato a pochissimo dalla cattura della Pomerlau e che conosceva a memoria tutti gli aspetti delle passate indagini svolte in Canada. Tempe è “costretta”, quindi, ad andarlo a cercare addirittura in Costa Rica, dove il nostro si è sepolto dopo la morte della figlia in un isolamento da eremita. Dovrà ritrovarlo e riportarlo alla vecchia vita e dovrà anche fare in fretta, prima che la Pomerlau uccida di nuovo. Insieme a Ryan, l’antropologa forense inizierà un cammino lungo e pericoloso a caccia di una terribile e feroce criminale. Il ritorno di Ryan permetterà alle indagini di scorrere più veloci e di aggiungere altri tasselli di assoluta importanza. Scritto molto bene, anche questo capitolo della saga non delude. Interessante la scelta di legare la trama di questo libro ad un altro episodio (Morte di lunedì) che vedeva protagonista, ma come vittima, la stessa Anique Pomerlau. Nonostante i tanti episodi la Reichs rimane ai livelli di sempre per trama, struttura e scrittura della storia, cioè molto alti. L’intreccio giallo funziona benissimo e tiene incollato il lettore fino alla fine. I personaggi di contorno arricchiscono la trama e non sono solo delle macchie indistinte o di passaggio. Bello e divertente il personaggio della madre di Tempe, esperta hacker e molto carino il riferimento alla serie televisiva “Bones” tratta proprio dai libri della Reichs. Finale con il colpo di scena che mi lascia in sospeso e decisamente incuriosita. Speriamo, quindi, che esca presto il n. 18. Voto: 7,5.

martedì 21 ottobre 2014

RECENSIONE – Bullet di Laurel K. Hamilton



Diciannovesimo romanzo della saga della Cacciatrice di Vampiri e Negromante Anita Blake. A questa serie, a tutti gli altri libri, non ho mai dato meno della sufficienza, perché comunque è una serie a cui sono molto legata. Mi piaceva Anita Blake, dura dal cuore tenero. Mi piacevano le sue storie di indagini sul soprannaturale. Ma ora di questo non c’è più traccia. Si comincia a sentire una sorta di stanchezza in questi romanzi, soprattutto in quest’ultimo. La serie è diventata, oramai, ripetitiva e monotona. Sembra che la scrittrice sia caduta in una specie di spirale, da cui non riesce a venire fuori. Il romanzo non è altro che il racconto di un’insulsa e continua orgia, con sempre più partecipanti ammessi alla corte di Anita. Ok, la suddetta deve nutrire l’ardeur, quindi quando ha questi attacchi di libidine il primo che passa dalle sue parti va comunque bene e va usato. Poi… deve tenere a cuccia tutte le sue bestiole (è affetta da ogni forma di licantropia), quindi ha un uomo per ogni bestia con cui fare sesso, per evitare che queste la divorino dall’interno per cercare di uscire e trasformarla in una bestia vera. E ancora… i suoi triumvirati. Quello con Jean-Claude e il lupo mannaro Richard, e quello particolare con il vampiro Damian e il leopardo mannaro Nathaniel, quindi… altro sesso. Poi ci sono il suo Nim-Raj Micah, il suo re leopardo, poi il lupo mannaro Jason e i vampiri gemelli Wicked e Truth, che bisogna comunque tenere buoni, con cosa? Con del sesso grandioso. Insomma Anita non indaga più. Non svolge più il suo lavoro di risvegliante. I poliziotti protagonisti dei primi libri sono spariti completamente, non se ne parla più, così come è sparito il suo giovane collega, risvegliante come lei. Insomma questa saga sta decisamente scadendo nel ridicolo. Tutto si basa sulla lotta a “Mammina Cara”, madre di tutte le tenebre, la capostipite di tutti i vampiri della terra. L’unico modo per sconfiggerla sembrerebbe quello di fare sesso… tanto sesso, quindi, tutti si affidano ad Anita, perché è l’unica in grado di farsi una bella e sana scopata con qualsiasi uomo le capiti davanti (però sono tutti dei gran bei gnocchi!). Insomma, la madre di tutte le tenebre cerca di prendere possesso, con la sua anima cattiva, degli altri Master Vampiri e l’unica speranza che hanno di salvarsi è quella di riunire tutte le creature mannare e gli altri vampiri sotto un unico capo, Jean-Claude (che si prende tutti i meriti), anche se i suoi poteri derivano quasi tutti dalla particolarità di Anita (risvegliante, negromante, mezza vampira diurna, e mezza licantropa), l’unica di cui Mammina Cara si preoccupa veramente.  Voto: 4 (Spero in un seguito migliore… ma ho i miei dubbi!).

lunedì 6 ottobre 2014

RECENSIONE – L’incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea” di Romain Puértolas

Il fachiro Ajatashatru (si pronuncia aggancia sta gru… ma anche in altre maniere) parte per la Francia per comprare un “comodissimo” letto di chiodi, venduto all’IKEA di Parigi alla modica cifra di 99 euro e 99. Perché non cogliere l’occasione anche di mettere il naso fuori dal suo paese? Non tutto però va secondo le sue previsioni. Per comprare il letto, ma anche per mantenersi ha soltanto una banconota falsa da 100 euro e degli occhiali per truffare le persone. Sì perché il nostro, oltre ad essere un fachiro, è soprattutto un abile truffatore. Rimasto nel magazzino per non pagare un albergo, l’uomo per non essere scoperto si rifugia in un armadio che viene imballato e spedito in Inghilterra. Comincia così il suo viaggio, dove viene sballottato in diversi Paesi europei, ed in ogni tappa del suo percorso subisce degli shock emotivi che lo sconvolgono al tal punto da non voler più fare la vita che ha vissuto fino a quel momento, fatta di bugie, di truffe e di imbrogli, tutto dovuto però ad un’infanzia dura e difficile. Rimane colpito dalla generosità di alcune persone che incontra sui suoi passi, come la giovane Marie che conosce al ristorante dell’IKEA, i clandestini sudanesi che cercano di passare, invano, la frontiera tra la Francia e l’Inghilterra, che lo hanno salvato e fatto uscire dall’armadio, e l’attrice Sophie Marciò che se lo ritrova nella sua valigia di Vuitton e lo aiuta e lo ospita a Roma nel suo stesso albergo. Durante il viaggio in aereo, tra la Spagna e l’Italia, il nostro inizia a scrivere quello che dovrebbe essere il romanzo della sua nuova vita da scrittore, sulla sua camicia. Romanzo che lo poterà ad ottenere un contratto principesco con un editore francese. Ricco di colpi di scena, ma anche di momenti intensi, questo romanzo è un tripudio di fantasia, basti solo pensare alle assonanze dei nomi dei personaggi (bravo anche il traduttore italiano), ma fa anche riflettere su questioni di fondamentale importanza e di grande attualità. Il gusto per l’affabulazione si percepisce chiaramente (non è certo casuale che il fachiro non solo inventi per necessità, ma senta poi l’esigenza di scrivere una storia) ed è arricchito dalla forza con cui è tratteggiato il protagonista (esilarante, ma tutt’altro che superficiale) e dalla capacità dell’autore di creare una forte empatia con il lettore che viene coinvolto, stupito e commosso. Alla fine di questo libro, infatti, resta l’essenziale, cioè il rapporto di un uomo che si trova isolato dalla sua casa, lontano geograficamente e sentimentalmente, che instaura con le altre persone che si ritroveranno sul suo cammino, rapporti fatti di sentimenti positivi, che vincono sempre sulla negatività e sulle difficoltà della vita. Voto: 7,5

sabato 4 ottobre 2014

RECENSIONE – I detective selvaggi di Roberto Bolaño

"I detective selvaggi” apre la sua prima parte (Messicani perduti in Messico – 1975), con una sorta di lungo prologo sotto forma di diario, della durata di un paio di mesi, tenuto dal giovane poeta diciassettenne Juan Garcia Madero, a partire dal suo ingresso nel movimento poetico “realvisceralista” capeggiato dai quasi mai in scena, ma molto citati, Ulises Lima e Alberto Belano, nella Città del Messico degli anni Settanta. Un romanzo picaresco di sbronze, discussioni letterarie e sesso. Poi mentre il lettore è concentrato sulla figura di Madero che fugge su una decapottabile alla volta del deserto del Sonora, questo scompare dalla scena e la prospettiva del romanzo cambia radicalmente. La seconda parte (I detective selvaggi – 1976/1996), la più estesa, raccoglie le testimonianze di vari personaggi, alcuni dei quali già incontrati nel diario di Madero, che ruotano intorno alla coppia di amici Arturo Belano e Ulises Lima, leader indiscussi del realvisceralismo e alla loro fissazione per Cesárea Tinajero, una misteriosa poetessa messicana d’avanguardia vissuta negli anni venti. Con i racconti vengono ricostruiti vent’anni di vita dei due protagonisti, dagli anni Settanta agli anni Novanta. Bolaño lo fa attraverso una prospettazione indiretta caleidoscopica, con corposi salti temporali, attraverso i racconti di chi li ha conosciuti nel loro peregrinare per il mondo. Nel procedere della narrazione, questi racconti-interviste, diventano autonomi, tanto che gli intervistati raccontano quasi più di loro stessi che dei protagonisti, che ci appaiono sempre più persi: alle volte ci appaiono come spregevoli truffatori, altre come dei cavalieri senza macchia e senza paura, altre ancora come degli spacciatori di droga. Sempre più lontani l’uno dall’altro, entrambi lontani dai sogni e dalle speranze del mondo dei loro vent’anni. Nella terza parte viene ripreso il diario di Madero, che racconta il viaggio verso il deserto del Sonora, di nuovo negli anni Settanta, dove tutto era iniziato. Insieme a Madero ci sono Lima, Belano e Lupe, una puttana. Scappano tutti e quattro da qualcosa, ma allo stesso tempo lo inseguono, anche se per ognuno di loro è un qualcosa diverso, tutto incarnato nel ritrovamento dell’improbabile poetessa Cesárea Tinajero, autrice di un’unica semi-sconosciuta poesia. Non vi racconterò se la troveranno o meno, di certo troveranno la poesia, e noi con loro, in un finale che più aperto non si può. Voto: 7,5

venerdì 3 ottobre 2014

RECENSIONE - Colosseum. Arena di sangue di Simone Sarasso

Protagonisti di Colosseum, sono la costruzione del noto anfiteatro, ma soprattutto Vero, giovane britanno deportato, che arrivato nell’Urbe dopo svariate peripezie, entrerà a far parte della schiera di esseri viventi modellati ed istruiti a forza di sudore, sangue e lotte, per diventare gladiatori. Simone Sarasso nel suo romanzo ci racconta la storia di Vero, un giovane ragazzo strappato dalle terre della sua natia Britannia appena quindicenne e delle vicende che lo condussero al centro dei giochi inaugurali del Colosseo. Sarasso ha un merito, quello di riuscire a trasportarci all’interno dell’arena, anche negli angoli più bui, con una narrativa semplice, ma che non lascia niente al caso, tanto che è un trionfo di sangue e sudore; e mentre si legge tra le pagine, si riescono a percepire anche gli odori che aleggiano nell’aria. Ci fa passeggiare tra quelle pietre e dopo avercele descritte, ci pone direttamente sulle tribune a guardare, insieme al popolo romano, gli atroci giochi inaugurali, ma anche spettacoli che suscitano meraviglia. Il romanzo storico deve rispettare un equilibrio sottile, fra precisione storica ed interesse narrativo e in questo Sarasso è bravissimo. Scomoda addirittura Marziale, per descriverci le prodezze di Vero e Prisco, l’altro protagonista del libro. La trama risulta godibile e ci traina appassionatamente verso il finale.  Il romanzo è ambientato nella Roma dell’80 d.C., dove il gladiatore Vero scenderà a combattere in una delle arene più famose, ancora in piedi al giorno d’oggi. Ad assistere al suo spettacolo ci sarà tutta Roma, ma soprattutto l’imperatore Tito, che con soddisfazione, osserverà gli uomini forgiati dai durissimi allenamenti e dalla lotta, combattere nel suo magnifico gigante di marmo, che i posteri conosceranno come Colosseo. Quello compiuto da Vero, giovane uomo tutto muscoli, ma molto ingenuo, è un vero e proprio viaggio verso l’indipendenza. Un lungo cammino, pieno di insidie. Accanto a Vero, nella lotta per la libertà e la vita, c’è il gallo Prisco, suo compagno e complice nei combattimenti. Mentre Vero è un impulsivo, ed è come fuoco che scaturisce da una scintilla, Prisco è ghiaccio allo stato puro. I due si combattono, ma sono legati da una grande amicizia, se non da amore, da un rapporto di stima e solidarietà che solo, Giulia, la figlia dell’imperatore Tito, riuscirà a scalfire. Colosseum, è un romanzo avvincente, in bilico tra storia e avventura, nel quale il sudore, il sangue, il dolore, la morte e la violenza diventano spettacolo e si intrecciano in solide maglie nella trama narrativa creata da Sarasso. Ogni pagina è un passo verso l’agognata libertà che Vero sogna da quando l’hanno privato di ogni cosa, ma soprattutto della sua dignità di uomo libero. Un animo coraggioso e combattivo che lotta con tutte le sue forze pur di tornare libero e con una vita degna di esser vissuta. La storia è un concentrato di suspense, intrighi, passione e azione che ci richiamano alla memoria il grande film Spartacus. Il linguaggio di Sarasso è semplice e fluido nel raccontarci il viaggio di formazione di Vero, che lottando impara, non solo a diventare un gladiatore, ma anche un uomo. Allo stesso tempo l’autore ci trasporta nell’antica Roma, con i suoi usi e costumi di quei tempi. Ci tiene incollati alle pagine per scoprire tutta la storia di Vero, Prisco e Giulia e ci racconterà la magnificenza degli spettacoli allestiti negli anfiteatri romani. Le scenografie e le fantastiche macchine che accompagnavano le lotte dei gladiatori e delle fiere, dei martiri e dei boia. Spettacoli offerti dai potenti al popolo romano come forma di intrattenimento con le quali riuscirono a conquistare le masse, garantendosi il rispetto, la fama e il potere. Voto: 7,5