Barney Panofsky è un ricco ebreo canadese, figlio di un
poliziotto corrotto, produttore di serial TV molto molto commerciali, ma che
rendono bene. Ha un passato da raccontare di una vita dissoluta, che continua
nonostante abbia sessantotto anni. L’opportunità di scrivere la sua
autobiografia gli viene dall’uscita del libro del suo amico-nemico Terry
McIver, “Il tempo, le febbri”, dove
lo stesso racconta la storia della loro vita dissoluta a Parigi, della loro
compagnia dissennata, dedita all’alcool, all’abuso di droghe, senza un soldo,
sempre a vivere di stenti e poco altro. Della compagnia facevano parte oltre a
Terry e Barney, Clara Charnofsky, pittrice e poetessa, che diventerà in seguito
la moglie di Barney e avrà una sua grande notorietà, anche se postuma, e Bernard
“Boogie” Moscovitch da tutti considerato un astro nascente, ma che non riuscirà
mai a scrivere nulla se non storielle. Sul libro di McIver vengono tutti messi
alla berlina, soprattutto Barney, che si vedrà costretto, quindi, a dare una
sua “versione” dei fatti. Nel corso della stesura delle sue memorie tuttavia, i
ricordi di Barney diventano via via confusi: gli episodi del suo passato si
intrecciano indissolubilmente con gli avvenimenti del suo presente, così che l’intero
romanzo risulta essere una serie di flashback disordinati: i racconti delle
giornate del “vecchio” Barney (acciaccato, abbandonato dalla moglie e alcolista
irrecuperabile), si mescolano alla girandola dei ricordi di una vita ricca di
avvenimenti e incontri straordinari. Il romanzo è strutturato in tre parti, una
per ognuna delle mogli di Barney, anche se a causa delle continue digressioni,
episodi concernenti a tutte e tre le donne saranno presenti in tutte e tre le
parti. La prima moglie, la pittrice e poetessa Clara Charnofsky, morta suicida
a Parigi (verrà incolpato anche di questo), la ciarliera seconda Signora
Panofsky, di cui non conosceremo mai il nome, che Barney sposa senza troppa
convinzione e dalla quale divorzierà presto, e Miriam, il suo unico grande
amore, la madre dei suoi figli Mike, Saul e Kate, con cui ha un rapporto
conflittuale. Barney non ha rispetto per nessuno, soprattutto per se stesso. Tutti
verranno presi di mira. Dagli ebrei, che sono messi alla berlina, ai
francofoni, agli scrittori celebri, a svariati altri gruppi etnici, e anche i
lifting verranno collaudati con una ditata sulla guancia: “volevo vedere se restava l’impronta!”. Ma soprattutto il libro,
che verrà pubblicato postumo dal figlio Mike (con le sue note a piè di pagina a
correggere gli errori paterni), deve spiegare al mondo intero il più grande
cruccio di Barney, quello per cui nessuno è disposto a giurare sulla sua
innocenza. La morte del suo amico Boogie, secondo molti ucciso in un impeto di
gelosia (lo ha trovato a letto con la seconda signora Panofsky), di cui il
cadavere però non è mai stato ritrovato. In trent’anni nessuno è riuscito a far
luce sulla verità e Barney alle sue bugie ci tiene: “La prima volta che ho detto la verità sono stato accusato di omicidio.
La seconda ci ho rimesso la felicità.” Il suo motto è negare, negare
sempre, ma quando si mette a scrivere la sua versione dei fatti Barney,
arruffone e logorroico, giura che sarà affidabile e sincero. A minare le sue
buoni intenzioni c’è però l’Alzheimer che costringe il poveretto a faticose
ricerche per la parola giusta, si ripete in continuazione chi sono i sette nani
senza mai ricordarlo, scorda spesso i nomi di semplici attrezzi, come il
mestolo e via dicendo. Disincantato, arruffone, pieno di parolacce, ma bello e
vero, come risulta essere il suo protagonista. Ho amato Barney Panofsky per
quello che era da giovane, e per come aveva preso la sua vita da vecchio, gli
ho voluto anche un po’ bene. Alla fine si è goduto la vita molto più di altri. Un
protagonista irriverente, per un libro altrettanto irriverente. Voto: 8,5
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