lunedì 17 marzo 2014

RECENSIONE – LA VERSIONE DI BARNEY DI MORDECAI RICHLER



Barney Panofsky è un ricco ebreo canadese, figlio di un poliziotto corrotto, produttore di serial TV molto molto commerciali, ma che rendono bene. Ha un passato da raccontare di una vita dissoluta, che continua nonostante abbia sessantotto anni. L’opportunità di scrivere la sua autobiografia gli viene dall’uscita del libro del suo amico-nemico Terry McIver, “Il tempo, le febbri”, dove lo stesso racconta la storia della loro vita dissoluta a Parigi, della loro compagnia dissennata, dedita all’alcool, all’abuso di droghe, senza un soldo, sempre a vivere di stenti e poco altro. Della compagnia facevano parte oltre a Terry e Barney, Clara Charnofsky, pittrice e poetessa, che diventerà in seguito la moglie di Barney e avrà una sua grande notorietà, anche se postuma, e Bernard “Boogie” Moscovitch da tutti considerato un astro nascente, ma che non riuscirà mai a scrivere nulla se non storielle. Sul libro di McIver vengono tutti messi alla berlina, soprattutto Barney, che si vedrà costretto, quindi, a dare una sua “versione” dei fatti. Nel corso della stesura delle sue memorie tuttavia, i ricordi di Barney diventano via via confusi: gli episodi del suo passato si intrecciano indissolubilmente con gli avvenimenti del suo presente, così che l’intero romanzo risulta essere una serie di flashback disordinati: i racconti delle giornate del “vecchio” Barney (acciaccato, abbandonato dalla moglie e alcolista irrecuperabile), si mescolano alla girandola dei ricordi di una vita ricca di avvenimenti e incontri straordinari. Il romanzo è strutturato in tre parti, una per ognuna delle mogli di Barney, anche se a causa delle continue digressioni, episodi concernenti a tutte e tre le donne saranno presenti in tutte e tre le parti. La prima moglie, la pittrice e poetessa Clara Charnofsky, morta suicida a Parigi (verrà incolpato anche di questo), la ciarliera seconda Signora Panofsky, di cui non conosceremo mai il nome, che Barney sposa senza troppa convinzione e dalla quale divorzierà presto, e Miriam, il suo unico grande amore, la madre dei suoi figli Mike, Saul e Kate, con cui ha un rapporto conflittuale. Barney non ha rispetto per nessuno, soprattutto per se stesso. Tutti verranno presi di mira. Dagli ebrei, che sono messi alla berlina, ai francofoni, agli scrittori celebri, a svariati altri gruppi etnici, e anche i lifting verranno collaudati con una ditata sulla guancia: “volevo vedere se restava l’impronta!”. Ma soprattutto il libro, che verrà pubblicato postumo dal figlio Mike (con le sue note a piè di pagina a correggere gli errori paterni), deve spiegare al mondo intero il più grande cruccio di Barney, quello per cui nessuno è disposto a giurare sulla sua innocenza. La morte del suo amico Boogie, secondo molti ucciso in un impeto di gelosia (lo ha trovato a letto con la seconda signora Panofsky), di cui il cadavere però non è mai stato ritrovato. In trent’anni nessuno è riuscito a far luce sulla verità e Barney alle sue bugie ci tiene: “La prima volta che ho detto la verità sono stato accusato di omicidio. La seconda ci ho rimesso la felicità.” Il suo motto è negare, negare sempre, ma quando si mette a scrivere la sua versione dei fatti Barney, arruffone e logorroico, giura che sarà affidabile e sincero. A minare le sue buoni intenzioni c’è però l’Alzheimer che costringe il poveretto a faticose ricerche per la parola giusta, si ripete in continuazione chi sono i sette nani senza mai ricordarlo, scorda spesso i nomi di semplici attrezzi, come il mestolo e via dicendo. Disincantato, arruffone, pieno di parolacce, ma bello e vero, come risulta essere il suo protagonista. Ho amato Barney Panofsky per quello che era da giovane, e per come aveva preso la sua vita da vecchio, gli ho voluto anche un po’ bene. Alla fine si è goduto la vita molto più di altri. Un protagonista irriverente, per un libro altrettanto irriverente. Voto: 8,5

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