Estate del 1900, Wenatchee contea
di Washington. C’è un grande frutteto di alberi, meli, susini e albicocchi. Un
uomo passa tra i filari degli alberi, tranquillo e pacato, come è sempre stato.
Fra quei boschi ancora
incontaminati, il non più giovane William Talmadge conduce una vita pacifica e
serena. Ma a Talmadge non è sconosciuto il dolore.
Prima del frutteto c’era la
miniera dove è morto suo padre, il lungo viaggio fatto con sua madre e sua
sorella Elsbeth per arrivare a Wenatchee, gli stenti e le privazioni. Tutto
questo ha fiaccato sua madre e due anni dopo il loro arrivo al frutteto, tirato
su con maestria dall’allora quindicenne Talmadge, muore lasciandolo solo con
sua sorella. Vivranno insieme un’esistenza solitaria, interrotta soltanto da
qualche visita all’amica di sempre Caroline Middey e dall’arrivo di Clee un
indiano razziatore di cavalli. Ma il dolore non è ancora finito per Talmadge.
Appena quindicenne, sua sorella Elsbeth sparirà. Portata via da qualcuno con la
forza? Morta in qualche crepaccio? Scappata dalla noia e dalla vita sempre
uguale del frutteto? Talmadge non lo sa, ma rimarrà segnato da questa cosa per
tutta la vita, soprattutto per non aver fatto abbastanza per ritrovarla.
Un bel giorno, mentre la vita sembra
procedere sempre nella stessa direzione, mentre Talmadge è al mercato a vendere
le sue mele e si è appisolato, due ragazzine, Della e Jane, in evidente stato
interessante, gli rubano delle mele.
Talmadge lascia stare, non le
rincorre. Le hanno fatto una certa impressione.
Due giorni dopo le ritrova tra i
filari del suo frutteto e da quel momento in poi si instaura con le due
ragazzine una sorta di “trattato”. Loro sono lì al frutteto e rompono la
monotonia di Talmadge e nel frattempo, con molta fatica Talmadge riesce a far
breccia nella loro diffidenza soprattutto verso gli uomini. Scopre che le due
ragazze sono state brutalizzate da un uomo di nome Mickelson di cui portano anche
il cognome, che le sta cercando. Scopre che non è il padre come aveva pensato
in un primo momento, ma un pedofilo stupratore, che violenta le ragazzine e le
fa anche prostituire.
L’autrice ambienta la storia nel
luogo delle sue origini e struttura un’opera lunga e rigorosa, che si concentra
sulle acute analisi psicologiche del protagonista e culmina nel messaggio
finale, ovvero che mai il dolore e il passato possono essere lasciati indietro,
anzi diventano bagaglio del proprio essere, lo formano, lo plasmano nel bene e
nel male. Passato e presente quindi si mescolano in una storia che riecheggia
la stessa forma ariosa dei boschi e delle lande infinite di quei luoghi ancora
vergini, selvaggi e incontaminati, nei quali prende corpo.
Cosicché la forma narrativa si fa
epica non solo attraverso la dimensione della vicenda, ma anche attraverso la
costruzione dei personaggi secondari, che fanno da sfondo.
Eppure in questa dimensione
estremamente malinconica e al tempo stesso violenta della frontiera, attraverso
i temi classici della colpa e della redenzione, della vita e della morte, della
fede e dell’amore, il lettore può cogliere le tracce dell’antico splendore
verso quel desiderio di futuro e di speranza che si celava dietro quei viaggi
infiniti dei pionieri. La Coplin spiega così entrambe le ragioni dietro quel
mondo: la fiducia e il fallimento, ma inesorabilmente il senso atavico di
desolazione predomina nel romanzo. Perché in fondo tutta quella ostentata
innocenza del sogno americano si era già persa nell’estate del 1900, a
Wanatchee.
Voto: 8,5
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