mercoledì 2 ottobre 2013

RECENSIONE - L'ALBERO DELLE MELE DI AMANDA COPLIN

Estate del 1900, Wenatchee contea di Washington. C’è un grande frutteto di alberi, meli, susini e albicocchi. Un uomo passa tra i filari degli alberi, tranquillo e pacato, come è sempre stato.
Fra quei boschi ancora incontaminati, il non più giovane William Talmadge conduce una vita pacifica e serena. Ma a Talmadge non è sconosciuto il dolore.
Prima del frutteto c’era la miniera dove è morto suo padre, il lungo viaggio fatto con sua madre e sua sorella Elsbeth per arrivare a Wenatchee, gli stenti e le privazioni. Tutto questo ha fiaccato sua madre e due anni dopo il loro arrivo al frutteto, tirato su con maestria dall’allora quindicenne Talmadge, muore lasciandolo solo con sua sorella. Vivranno insieme un’esistenza solitaria, interrotta soltanto da qualche visita all’amica di sempre Caroline Middey e dall’arrivo di Clee un indiano razziatore di cavalli. Ma il dolore non è ancora finito per Talmadge. Appena quindicenne, sua sorella Elsbeth sparirà. Portata via da qualcuno con la forza? Morta in qualche crepaccio? Scappata dalla noia e dalla vita sempre uguale del frutteto? Talmadge non lo sa, ma rimarrà segnato da questa cosa per tutta la vita, soprattutto per non aver fatto abbastanza per ritrovarla.
Un bel giorno, mentre la vita sembra procedere sempre nella stessa direzione, mentre Talmadge è al mercato a vendere le sue mele e si è appisolato, due ragazzine, Della e Jane, in evidente stato interessante, gli rubano delle mele.
Talmadge lascia stare, non le rincorre. Le hanno fatto una certa impressione.
Due giorni dopo le ritrova tra i filari del suo frutteto e da quel momento in poi si instaura con le due ragazzine una sorta di “trattato”. Loro sono lì al frutteto e rompono la monotonia di Talmadge e nel frattempo, con molta fatica Talmadge riesce a far breccia nella loro diffidenza soprattutto verso gli uomini. Scopre che le due ragazze sono state brutalizzate da un uomo di nome Mickelson di cui portano anche il cognome, che le sta cercando. Scopre che non è il padre come aveva pensato in un primo momento, ma un pedofilo stupratore, che violenta le ragazzine e le fa anche prostituire.
L’autrice ambienta la storia nel luogo delle sue origini e struttura un’opera lunga e rigorosa, che si concentra sulle acute analisi psicologiche del protagonista e culmina nel messaggio finale, ovvero che mai il dolore e il passato possono essere lasciati indietro, anzi diventano bagaglio del proprio essere, lo formano, lo plasmano nel bene e nel male. Passato e presente quindi si mescolano in una storia che riecheggia la stessa forma ariosa dei boschi e delle lande infinite di quei luoghi ancora vergini, selvaggi e incontaminati, nei quali prende corpo.
Cosicché la forma narrativa si fa epica non solo attraverso la dimensione della vicenda, ma anche attraverso la costruzione dei personaggi secondari, che fanno da sfondo.
Eppure in questa dimensione estremamente malinconica e al tempo stesso violenta della frontiera, attraverso i temi classici della colpa e della redenzione, della vita e della morte, della fede e dell’amore, il lettore può cogliere le tracce dell’antico splendore verso quel desiderio di futuro e di speranza che si celava dietro quei viaggi infiniti dei pionieri. La Coplin spiega così entrambe le ragioni dietro quel mondo: la fiducia e il fallimento, ma inesorabilmente il senso atavico di desolazione predomina nel romanzo. Perché in fondo tutta quella ostentata innocenza del sogno americano si era già persa nell’estate del 1900, a Wanatchee.

Voto: 8,5

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